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La seta: industria e commercio in Italia dalla metà dell’Ottocento alla grande crisi

fotografia tratta da un industria serica di reggio calabria
Il voler porre l’attenzione sulle caratteristiche della produzione e del commercio della seta deriva dalla grande importanza rivestita da tale settore nel processo di sviluppo economico italiano, sia in epoca preindustriale che durante il processo di industrializzazione.
Con riferimento in particolare a questo secondo momento, riportiamo ed analizziamo la tesi sostenuta da autori quali Luciano Cafagna e Giovanni Federico; il settore serico è da essi interpretato come quel settore che ha “dato un contributo significativo, e forse essenziale e strategico, all’ingresso dell’Italia, lungo il secolo XIX, entro il ristretto novero dei paesi industriali, o a “crescita economica moderna” (come la definì Simon Kuznets), sia pure “ritardatari”. (L. Cafagna, Introduzione a G. Federico, 1994, “Il filo d’oro. L’industria mondiale della seta dalla restaurazione alla grande crisi”, Venezia: Saggi Marsilio, p. 12)
Quest’ipotesi è da essi sostenuta in quanto si collega ad alcune suggestioni concettuali della teoria dello sviluppo economico formulate negli anni ’50 e ’60. Queste sono:
·        modello dello sviluppo export-led, guidato dalle esportazioni, sostenuto particolarmente da Hla Mynt: i flussi di esportazione dei prodotti primari sono visti come premessa alla formazione di capitale investibile in questi paesi caratterizzati da un’economia ancora agricola. La produzione della seta in Italia era una tipica attività outward-looking (molto richiesta sul mercato internazionale in un’ottica di lungo periodo), che beneficiava di un oligopolio geoclimatico, di costi di transazione particolarmente favorevoli e di una privilegiata posizione di mercato.
·        teoria della formazione dei mezzi di pagamento, formulata da H. B. Chenery, secondo la quale condizione necessaria per l’accumulo di un’adeguata base iniziale di investimenti è la possibilità di importare fonti di energia, macchinari, materie prime.
In Italia, la formazione dei mezzi di pagamento è stata consentita, per una larga parte, dal ricavato delle esportazioni della seta greggia e filatoiata.
·        modello del settore traente di Walt Rostow e dello staple product dei canadesi Innis e Watkins: per una particolare produzione, la possibilità di formare un flusso imponente di export è determinata da circostanze peculiari, dal verificarsi di una “occasione storica” che, nel caso della seta, è rappresentata da una posizione di oligopolio climatico territoriale e dalla presenza di economie nei costi di transazione.
·        teoria dei linkages di Albert Hirschman che suggerisce come, all’interno di una singola produzione merceologica, possano essere più o meno presenti effetti propagativi di sviluppo. Per quanto riguarda la seta, molti e significativi sono i linkages del settore; Cafagna ne rileva alcuni quali “una vasta intermediazione commerciale e finanziaria nata sul commercio delle sete, l’addestramento contadino a seguire o anche solo subire le variabili quotazioni dei prezzi, l’avvio sia pur solo stagionale al trasferimento nel lavoro esterno di fabbrica della famiglia rurale, la sperimentazione di un elementare lavoro di squadra, l’handling appreso nel paziente lavoro di un filo sottile e disperante, e poi il fabbisogno numeroso di aggeggi, magari rudimentale (ma neanche tanto) meccanici, e quindi di produzione e riparazione di macchinari per le diffuse tratture e le meno diffuse torciture”. (L. Cafagna, Introduzione a G. Federico, 1994, “Il filo d’oro. L’industria mondiale della seta dalla restaurazione alla grande crisi”, Venezia: Saggi Marsilio, p.15)
·        modello della formazione di un serbatoio di manodopera rurale a basso costo per l’industrializzazione di Lewis-Fei Ranis di cui l’Italia settentrionale rappresentava un buon esempio, caratterizzato anche da fenomeni di part-time e di pendolarismo prima di cedere all’industria il suo intero serbatoio di manodopera.
I sopraccitati autori definiscono il settore serico uno “storico business” che ha sostenuto la crescita industriale italiana e il suo avvicinamento al percorso di sviluppo delle nazioni più avanzate. La seta ha seguito una parabola di forte ascesa entro il mercato mondiale, succeduta però da una fase di decadenza per un effetto “fine-del-ciclo-del-prodotto”.
L’evoluzione del settore serico in Italia dagli inizi del XIX secolo alla Grande crisi del 1929, evidenzia come la seta abbia svolto un ruolo cruciale per la crescita economica nel nostro Paese ma abbia, d’altro canto, “fatto nascere il suo stesso assassino” (G. Federico, 1994, “Il filo d’oro. L’industria mondiale della seta dalla restaurazione alla grande crisi”, Venezia: Saggi Marsilio); lo sviluppo economico e della società, ai quali il settore serico aveva fortemente contribuito, giunsero a tal punto da rendere lo stesso settore serico troppo oneroso, in termini soprattutto di costo economico e sociale della forza lavoro, rispetto a più convenienti alternative che si andavano nel frattempo creando.


L’evoluzione cronologica di lungo periodo

Alla fine del XVII secolo, la produzione della seta era sviluppata solamente in alcune zone del continente europeo ed asiatico. In Europa l’area trainante era l’Italia settentrionale, seguita dalla Francia meridionale, dalla Spagna e dalla regione dei Balcani, mentre nel continente asiatico la produzione si concentrava attorno a Shangai e a Canton in Cina, nell’isola di Honshu in Giappone ed in alcune zone dell’India, della Persia e del Turkestan.
Questo scenario era destinato a rimanere stabile per oltre due secoli, tanto che, ancora nel XIX secolo, le due grandi aree guida, sostanzialmente autonome ed autosufficienti, rimanevano l’Europa e l’Estremo Oriente.
Per quanto riguarda l’Europa, è da evidenziare come all’interno del continente fosse avvenuta, a partire dal XVIII secolo una netta separazione geografica tra le fasi di produzione e di lavorazione della seta: le prime erano localizzate nel bacino del Mediterraneo, mentre la lavorazione veniva effettuata principalmente nei paesi dell’Europa settentrionale. Le ragioni di tale separazione sono da ricercarsi in fattori prevalentemente climatici; la coltivazione del gelso e l’allevamento del baco sarebbero stati possibili anche nell’Europa settentrionale, ma l’elevato costo per il riscaldamento degli ambienti dove allevare i bachi ed il rischio di perdita della foglia avrebbero reso l’attività poco competitiva.
Analizzando in particolare il caso dell’Italia nella prima metà dell’Ottocento, la produzione serica, come già esposto, era concentrata soprattutto al Nord, specialmente in Piemonte e in Lombardia. In queste aree, privilegiate dal punto di vista climatico, si era andata formando una tradizione, risalente almeno al XVI secolo, di coltivazione dei gelsi, di allevamento dei bachi e di trasformazione dei bozzoli in filo di seta pronto per la tessitura.
Le tecniche utilizzate in queste prime operazioni del ciclo serico erano all’avanguardia rispetto al resto dell’Europa.
Nei primi decenni successivi alla Restaurazione la domanda di prodotti tessili, tra cui cotone, lana ma anche seta, aumentò notevolmente; ciò fu dovuto all’incremento dei consumi sia nell’Europa occidentale che nell’America del Nord e comportò un aggiornamento delle tecniche di lavorazione.
Intorno agli anni ’50, in Piemonte e in Lombardia erano attivi circa 700-800 stabilimenti di torcitura della seta, in gran parte azionati ad acqua e i lavoratori addetti alle fasi di trattura e torcitura erano circa 150 mila. Si trattava per lo più di manodopera rurale impiegata stagionalmente in piccoli laboratori dislocati nelle campagne.
Alcuni autori sostengono che fu proprio in questi opifici che nacque la prima educazione al lavoro industriale e che proprio il commercio della seta comportò il primo interessamento ad un’attività non soltanto agricola da parte di capitalisti e commercianti-banchieri e l’afflusso di imprenditori svizzeri e tedeschi.
Il settore serico contribuì a formare “economie esterne”, ossia permise di sviluppare altre produzioni industriali ad esso in qualche modo connesse ed è in tal senso che può essere considerato come traente per l’economia italiana dell’Ottocento.
La fase finale di lavorazione del prodotto serico, la tessitura, ha sempre rivestito, rispetto alla trattura e alla torcitura, un ruolo di minore importanza. Questo perché l’economia italiana non era in grado di soddisfare il mercato dei consumatori finali, controllato dall’industria straniera, e preferiva evitare battaglie competitive limitandosi a sfruttare il suo oligopolio naturale favorevole alle fasi che portavano dalla gelsibachicoltura alla produzione del filo di seta. Difficile fu comunque anche lo sviluppo della lavorazione intermedia della torcitura, cioè della fase che forniva il filato vero e proprio.
Fino ai primi anni dell’Ottocento essa rimase limitata al Piemonte dove vigeva una politica mercantilistica che proibiva l’esportazione della seta greggia, ma che non era talmente forte da estendersi anche all’esportazione dei filati da tessere.
Un brusco arresto della produzione serica avvenne in Italia, e più in generale in Europa, verso la metà dell’Ottocento, a causa della comparsa della pebrina, una malattia di eccezionale gravità, incurabile, contagiosa ed ereditaria che colpiva i bachi.
La pebrina sembra aver addirittura minacciato la scomparsa dell’intera sericoltura europea, dato che gli animali infetti, anche se riuscivano a sopravvivere e a deporre seme, generavano bachi destinati sicuramente a morire. Considerando che le tecniche del tempo non permettevano di capire se il seme era contagiato, unica soluzione per ridurre il manifestarsi della malattia era importare seme da zone non colpite dalla pebrina. Ciò non era comunque garanzia di successo, dato che questo avrebbe potuto infettarsi durante l’allevamento.
Fu così che si instaurò, a partire dal 1860, un fitto commercio di seme-bachi proveniente dal Giappone, che contribuì a mutare radicalmente alcuni aspetti relativi alla gelsibachicoltura.
Importare seme significò certamente innalzare i costi di produzione, nonché aumentare il grado di rischio caratterizzante il settore dovuto alla possibilità di un esito infelice dell’allevamento.
Si ebbe di conseguenza una contrazione dell’offerta europea di seta, che permise alle esportazioni asiatiche di conquistare ampi spazi di mercato. Questa opportunità fu sfruttata in particolar modo dal Giappone, che solo da poco si era aperto all’Occidente, poiché la produzione cinese risentiva della rivolta interna dei Tai’ping.
A causa della crisi pebrinica, nel settore serico avvenne anche un’altra piccola rivoluzione: l’Italia spostò la sua attenzione dalle fasi iniziali di lavorazione dei bachi alla fase finale della filatura, cioè la torcitura. Ciò è testimoniato dal fatto che la quota di seta completamente filata sulle esportazioni totali di questo prodotto aumentò dal 17% all’80% nel periodo tra il 1855 ed il 1865. L’incremento della filatura, che si concentrò principalmente in Lombardia, comportò forti mutamenti nell’atteggiamento degli imprenditori, quali una maggiore propensione all’adozione di innovazioni tecnologiche e una maggiore attenzione alla qualità dei prodotti.
La produzione europea -in sostanza italiana- ritornò sui livelli precedenti la crisi attorno al 1870.
L’industria tessile italiana, nei suoi rami fondamentali della seta e del cotone, raggiunse tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento la piena maturità; essa concorreva a formare il 40% circa delle esportazioni complessive nonché il 60% di quelle non alimentari. Forniva occupazione a circa un terzo degli operai rilevati dal censimento del 1911 e, secondo le stime ISTAT, nel 1913 il valore aggiunto di questo settore rappresentava il 20% del totale prodotto dall’industria manifatturiera.
Nello stesso periodo è da evidenziare anche un progressivo sviluppo della tessitura industriale: secondo alcuni dati riportati da Cafagna, “nel 1876 vi erano nel comparto seta solo 250 telai meccanici e 12 mila a mano; nel 1890 le proporzioni erano 2 mila e 500 e 12 mila e ancora nel 1898 i telai meccanici erano 3 mila contro i 12 mila a mano. Nel 1912 troviamo rovesciato questo rapporto: 15 mila telai meccanici contro 5 mila a mano.”
Questo cambiamento è senza dubbio il risultato di ingenti investimenti: la produzione con i telai a mano non era certamente capital intensive, poiché tale macchina costava appena 200 lire ed era capace di un prodotto sulle 3 mila lire annue. Un telaio meccanico costava invece mediamente 6 mila lire e produceva fra le 8 e le 9 mila lire di tessuto. Fra il 1898 ed il 1912 si stima dunque un investimento complessivo pari a 72 milioni di lire dell’epoca.
La produzione ed il commercio di seta aumentarono, dal 1870 in poi, non solo a livello europeo, ma anche su scala mondiale. Ciò fu dovuto alla crescente domanda della tessitura europea e nel contempo anche di quella americana.
Il mercato internazionale era caratterizzato da un elevato rapporto commercio/produzione, poiché grandi produttori quali l’Italia, il Giappone e forse la Cina esportavano una larga quota di ciò che producevano: l’Italia esportò, negli anni dal 1870 al 1920, oltre l’80% della produzione, mentre il Giappone fra metà e tre quarti.
Nel 1913, il valore complessivo dell’interscambio (201 milioni di dollari) collocava la seta al diciassettesimo posto nell’elenco delle commodities e la sua quota sul commercio mondiale oscillava attorno all’1,5% del totale.
Per avere un’idea di quali erano i settori che la precedevano, riportiamo la seguente tabella:
           

Prodotto
Valore complessivo dell’interscambio
(in milioni di dollari)
Cotone
918
Grano
854
Carbone
656
Legno
535
Lana
525
Pelli
499
Zucchero
461
Frutta
449
Semi oleosi
375
Carne
359
Caffè
336
Rame
304
Petrolio
261
Riso
250
Vino
226
Gomma
210
Seta
201

 
Fonte: G. Federico, 1994, p.12


Fino agli inizi del XX secolo, gli equilibri mondiali sono rimasti pressoché invariati, mentre in seguito la situazione si è andata modificando con un progressivo aumento delle quote di mercato controllate dall’industria nipponica.
Malgrado un temporaneo arresto causato dalla Prima Guerra Mondiale, alla vigilia della Grande crisi il commercio mondiale della seta raggiunse il suo massimo storico e due terzi di esso proveniva proprio dal Giappone.
La crisi irrimediabile e definitiva del settore serico avvenne attorno alla metà del XX secolo: la Grande crisi del 1929 ed il secondo conflitto mondiale ridussero drasticamente i consumi di un bene di lusso come la seta.
Nonostante un tentativo di ripresa nel dopoguerra, il settore non ha mai più raggiunto la dimensione della fine degli anni Venti, in seguito anche della concorrenza delle nuove fibre sintetiche quali il rayon e artificiali come il nylon.
Inoltre, la mappa dei paesi produttori è stata completamente stravolta: l’Europa ha abbandonato la produzione della seta; il Giappone, che non ha visto scomparire il setificio solo grazie a misure protezionistiche, è diventato importatore netto di materia prima; la Cina è dunque rimasta l’unica esportatrice, almeno fino a quando, in anni recenti, nuovi concorrenti come Thailandia, Corea e Brasile non si sono affacciati sul panorama mondiale.
Utilizzando un’espressione di Gueneau, si può dire che il ciclo secolare si è concluso con il “ritorno alla culla della sericoltura”.

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